La catapulta
"Vieni, Vanč," lo chiamò forte Anže mentre passava con due amici sotto alla sua casa, "costruiremo una catapulta." C'erano anche Nacek e Jožko, tutti e due del paese, di Trzin.
"Aspettate, aspettate, ma che cos'è una catapulta?" chiese Vanč.
Non gli risposero, ma corsero avanti e nella fretta gli gridarono da lontano: "Vieni sopra alle cave e vedrai!"
In un attimo erano spariti. E Vanč prese ad arrovellarsi sul senso delle loro parole. Ci rimuginò su tanto a lungo da scordarsi tutte le cose che il babbo gli aveva raccomandato di fare. Si precipitò sulla cima dell'Onger.
Naturalmente allora la cava di Trzin non erano così grande come lo sarebbe diventata in seguito. Vi venivano estratte poche pietre e tutte a mano, o con pali di ferro, picconi, ed anche pale. Non si conoscevano ancora i carrelli portacarichi, perlomeno non in questa regione. Sotto c'era uno spiazzo di soli pochi metri. A gettare un sasso dalla cima, lo si faceva volare piuttosto lontano e spesso i bambini si radunavano per gettare pietre e fare a gara a chi le avrebbe tirate più lontano.
Quando Vanč arrivò alla cava, Nacek e Jožko erano intenti nello sforzo di piegare un ontano, giovane e non troppo robusto, più che un albero un arbusto molto grosso, ma la cosa non riusciva. Da lontano Vanč vide che più di una volta l'alberello era sfuggito loro di mano per sferzare allegramente in alto verso il cielo
"Aiutaci, aiutaci!" lo implorò Nacek, ma inutilmente, l'albero sgusciò ancora tra le loro mani.
"Perché non sei arrivato prima? Ora arrampicati sull'albero, io sono già stanco" si lamentò Jožko.
"Come? Sull'albero?" chiese Vanč. E subito gli spiegarono che occorreva arrampicarsi sull'albero, poi piegarlo ed abbassarlo fino a terra, mentre loro due lo avrebbero velocemente legato ad una roccia vicina con una corda. E davvero Vanč salì alto sull'ontano, quasi in cima, e l'albero prese a piegarsi verso il basso. In quest'azione la paura era davvero forte, perché Vanč avrebbe potuto capitombolare se la cima si fosse spezzata. Ma questa voltaci riuscirono, schiacciarono l'albero a terra e in un attimo fu legato alla sporgenza rocciosa.
"Ho scelto un bell'albero, che ne dite?" andava dicendo Nacek a Jožko.
"Sì, sì, della grossezza giusta e snello, l'importante è che il fusto non sia troppo grosso e che non si spezzi nel piegarsi, altrimenti saresti nella peste!" e rivolse uno sguardo canzonatorio a Vanč.
"Beh, abbiamo avuto fortuna, vero Nacek?"
"Ma che fortuna, questo è ingegno!" gli rispose con allegria.
In breve, la catapulta era quasi pronta.
"Che cosa volete fare adesso?" chiese Vanč curioso.
"Ora ascolta" prese a dire Nacek tutto serio, "di questi macchinari, come una specie di cannone, disponevano un tempo i Turchi e i nobili per difendere i loro castelli, così mi ha raccontato mio padre, e allora mi è venuto in mente che anche noi potremmo costruire qualcosa di simile."
E gli spiegò tutto per bene. Nacek portò un grande cesto di vimini e i ragazzi lo fissarono stretto all'albero.
"Ora vedrai cos'è la potenza!" esclamò Nacek tutto eccitato. "Ma vedi di scostarti in tempo dall'albero, o prenderai il volo con le pietre."
Naturalmente pensarono anche a sfrondare un po' i rami. Posero nel cestino una grossa pietra, quasi un macigno che riempiva tutto il cestino.
"Fate attenzione! Quando trancerò la corda venite a vedere come volerà lontano il masso."
Tutti presi dall'attesa ed eccitati, non li sfiorò nemmeno l'idea che potesse accadere loro qualcosa, e non pensarono proprio a dove sarebbe potuto cadere il masso, né passò loro per la mente che se qualcuno in quel momento fosse passato lì di sotto, bum sulla testa, e non ci sarebbe stato più. Non ci pensavano perché allora la gente non era solita andare in giro, ognuno se ne stava a casa propria e Nacek ci contava. "Attenti, via!" li avvertì a gran voce e tagliò la corda con un coltello affilato. L'alberello piegato sembrò volare verso il cielo, e con lui il masso che stava nel cestino. In un attimo furono tutti sull'orlo della cava. Non potevano credere ai loro occhi. Il masso volò dapprima alto nel cielo, e poi prese a cascare lontano, lontano sul prato là sotto.
"Bravo, bravo!" gridarono tutti assieme al colmo dell'entusiasmo.
"Proviamo ancora. Vero che è divertente?" chiese Nacek agli amici.
"Certo, certo, finché ce la facciamo!"
E continuarono a divertirsi in questo modo; ricomposero più volte la catapulta, finché un giorno il cestino si slegò e sfasciò, e per poco le pietre non caddero loro sul capo. Ma questo non li fece desistere, anzi lo raccontarono anche agli altri amici, e i massi ai piedi della cava cominciavano a farsi numerosi. Questo sì che era un gioco entusiasmante! E in paese già si mormorava della catapulta.
I genitori la presero come un gioco fino al giorno in cui sotto all'Onger passò Maks, cacciatore e guardaboschi del castello. Si stava dirigendo tranquillamente nel bosco ma nel passare sotto alla cima dell'Onger d'improvviso vide un grosso masso sorvolargli il capo. Ne ebbe una gran paura, perché in verità non aveva mai veduto passare per aria simili massi. Si voltò verso le cave e scorse i bambini che ridevano allegri.
"Allora è così" gli balenò in mente, "i bambini lanciano pietre! Beh, andiamo a vedere che succede lassù" pensò e si diresse silenzioso e guardingo verso la cava. I ragazzi stavano per l'appunto preparando un nuovo lancio dalla catapulta. Aspettò che finissero il lavoro e li sorprese con la sua presenza. Era troppo tardi per fuggire, e poi perché avrebbero dovuto, in fondo non avevano fatto del male a nessuno. Ma il guardaboschi li rimproverò aspramente, e ricordò loro tutto quello che sarebbe potuto accadere con un gioco così sconsiderato. Pretese che smettessero immediatamente con il gioco pericoloso e minacciò di raccontare tutto ai genitori. I ragazzi rimasero delusi e sconfortati, ma quando Maks raccontò di come il masso gli era passato sopra la testa, e di cose sarebbe accaduto se avesse colpito la carrozza, se ne fecero una ragione e se ne tornarono ciascuno alla propria casa.
Ma dopo qualche giorno le sentirono anche a casa, ognuno nella propria, e il gioco si fermò. Rimase solo il ricordo e la soddisfazione di essere riusciti ad azionare la catapulta.
Passarono gli anni, Vanč rimase Vanč, Nacek diventò Nace e Jožko Jože. Erano giovanotti, non più bambini, e ne erano ben coscienti. E avvenne un bel giorno dopo molti anni che i soldati francesi piantarono il loro accampamento proprio sotto alla cava. Dapprima furono accolti con favore nella nostra terra, ma si resero poi invisi alla popolazione per le tasse sempre più opprimenti e i modi crudeli.
Per questo la gente iniziò a porre loro resistenza, e a ciò contribuivano anche i successi crescenti dell'esercito austriaco. Gli abitanti di Trzin cominciarono a tramare per combinarla ai Francesi, perché non amavano proprio che se ne stessero accampati sotto al loro naso. Vanč, Nace e Jože erano anche abbastanza cresciuti da poter essere chiamati alla leva, per questo sarebbe stato meglio far sloggiare i Francesi da Trzin. Ma come fare? I prati sotto all'Onger brulicavano di tende con soldati armati fino ai denti!
Ma un bel giorno a Vanč venne un'idea e ne parlò anche ai suoi compagni Jožko e Nace. I due furono subito d'accordo. "Gliene combineremo una tale che non potranno capire chi li perseguita!" Decisero di attaccarli con la catapulta. Passarono in rassegna gli alberi e ne trovarono ben quattro adatti che crescevano sull'orlo della cava. Di giorno scelsero anche le pietre e prepararono cestini e corde. Di notte invece piegarono di nascosto gli alberi e prepararono le catapulte per l'attacco. Occorreva solo tagliare le corde, e decisero che sarebbe stato Vanč a farlo, poiché abitava lì vicino. Decisero anche di agire quando i soldati sarebbero stati intenti a riposare.
Ed avvenne proprio così. Quando dal campanile rintoccarono le undici, Vanč tranciò le corde, una alla volta, e con molta paura: non sapeva quali sarebbero state le conseguenze.
Quando i massi raggiunsero l'accampamento, laggiù sotto all'Onger, uno dopo l'altro, le guardie restarono di sasso, all'interno del campo invece accadde il finimondo: panico, urla, e nessuno riusciva a capire da dove provenissero le pietre, perciò non potevano combattere contro nessuno. In un attimo furono rase al suolo alcune tende, non pochi soldati si ritrovarono con la testa fracassata. I proiettili cadevano ora qui, ora là, alla rinfusa. Si udirono solo alcuni colpi di cannone, sparati più per paura che per difesa.
Vanč quella sera non ebbe il coraggio di tornare a casa, dormì in una grotta di origine carsica, visibile ancora oggi, e nella quale era facile nascondersi. Di giorno poi si diresse verso casa con l'ascia e un piccolo abete sulle spalle, ma non verso casa sua, verso il più sicuro castello. Il giorno dopo i Francesi studiarono i massi che erano piombati loro addosso, ma non riuscirono a capire come potessero essere arrivati così lontano. Sarebbe stato impossibile lanciarli con la forza delle braccia, solo un gigante avrebbe potuto farlo. Ispezionarono anche la cava, ma non trovarono nulla a parte alcuni rami e alcuni alberi spellati di ontano, e non ebbero alcun sospetto, per fortuna, altrimenti gli abitanti di Trzin avrebbero passato un grosso guaio. Si trattennero lì ancora per qualche giorno e poi si trasferirono altrove, perché evidentemente Trzin era un posto troppo pericoloso. Sembra che proprio questi stessi soldati francesi ebbero la peggio alcuni giorni dopo in uno scontro con gli abitanti di Mengeš e Trzin a Mengeško polje.
Vanč, Nace e Jože furono in seguito encomiati dall'illustrissimo imperatore d'Austria in persona. E se qualcuno non ci crede, vada a corte a Vienna, dove sono custoditi i riconoscimenti. Potrà vederli lì, ma dovrà impegnarsi molto per trovarli!